LASCIATE STARE OSCAR WILDE: IL BLOG PER CHI AMA LA LETTURA

Sono lieta di comunicarVi che oggi sul blog Lasciate Stare Oscar Wilde c’è un post a me dedicato.

Racconto la mia esperienza come scrittrice, la pubblicazione dei racconti in NVite e N+1Vite e la mia passione per le storie e la scrittura.

Se amate leggere, non potete non seguire Lasciate Stare Oscar Wilde (li trovate anche su Facebook e Twitter ), un gruppo di lettura di Milano nato da due menti femminili bionde e geniali, giusto per citare la loro presentazione, che ogni mese propone un libro da leggere e fissa una data per poterne parlare.

Il blog nasce per dare la possibilità a tutti i non milanesi di partecipare attivamente al gruppo di lettura, leggendo i libri proposti e scrivendo le proprie impressioni.

Colgo nuovamente l’occasione per ringraziare Lasciate Stare Oscar Wilde per avermi dato la possibilità e il privilegio di essere loro ospite.

Buona lettura!

 

 

 

 

 

 

GABRIEL, IL TOY BOY DI SILICONE *

E’ arrivato Gabriel e la vita di molte donne non sarà più la stessa.

Chi è Gabriel? Un ragazzone belloccio, dagli occhi azzurri e dal fisico atletico, che soddisferà le vostre voglie più intime alla modica cifra di cinquemila euro.

Sì, avete letto bene, per cinquemila euro potete portarvi a casa un uomo di nome Gabriel o, più nel dettaglio, un vibratore con un uomo intorno.

No, non sto parlando di un gigolo ma di un sexy toy boy. Letteralmente. (trovate l’articolo ed il video qui).

Gabriel, infatti, è un pupazzo (?), manichino (?), uomo (?) di silicone. Ma non chiamatelo bambola gonfiabile perché potrebbe offendersi. Gabriel è ultra sofisticato: ha una temperatura corporea, i peli, respira e, all’occorrenza, parla.

Ora, prima di gridare allo scandalo e di giudicare le donne che faranno un simile investimento, vorrei invitarvi a riflettere su alcuni punti.

Siete sicure che stare con Gabriel sia così disdicevole?
Insomma, nella quotidianità non viviamo situazioni più disdicevoli?
Tipo quello che dopo essersi rivestito, mentre voi siete ancora sognanti sul letto, ci tiene a precisare che “non state mica insieme e comunque lui si vede anche con altre donne ah ma come mi sembrava di avertelo detto”.
O quell’altro che vi chiede se vi è piaciuto, se siete venute, se è stato bravo.
O ancora quello che, subito dopo il sesso, vi racconta della tizia che si è fatto la settimana prima.

E non venite a dirmi che la donna ha bisogno di accendersi intellettualmente, che ha bisogno della dialettica perché, sì, se volete innamorarvi occorre molto più di un corpo ma, per favore, liberiamoci da questo retaggio culturale, e ormai quasi inesistente, che vuole che la donna non abbia pulsioni sessuali se non legate all’innamoramento. E’ la natura, è l’istinto primitivo, chiamatelo come volete ma ce l’abbiamo anche noi e, d’accordo, siamo ancora molto indietro e, pur essendo nel 2017, non sempre possiamo dichiararlo apertamente senza essere additate come zoccole ma, almeno, ammettiamolo con noi stesse.

Quindi, trovate ancora che sia così disdicevole?

Senza contare che Gabriel non giudica: la panzetta, il buco di cellulite, la tetta moscia.
Per la verità, in quei precisi momenti, neppure l’uomo in carne e ossa lo fa, ma questa è una verità che non riusciamo a comprendere, prese come siamo, dal voler apparire sempre perfette anche in momenti in cui dovremmo lasciarci totalmente andare.
E forse è questo il vero problema di molte donne: l’incapacità di lasciarsi andare.

Allora ben venga Gabriel che potrà aiutare le donne a conoscere meglio se stesse e al quale, se vorranno, potranno finalmente dire spontaneamente: “Sì, mi è piaciuto.”

(*post a contenuto ironico, astenersi perditempo e code di paglia.)

  foto tratta dall’articolo di Blitzquotidiano.it

 

GUARDA, AMORE, COME TI SCARICO

Sentite, parliamoci chiaro.
Le storie d’amore finiscono e finiscono per mille ragioni: complicate, banali, dolorose e, a volte, pure stupide. Ognuno è libero di alzarsi la mattina e dire “Sai che c’è? Basta.”
Certo, non è facile. Guardare negli occhi una persona con la quale si è condiviso qualche mese, un anno oppure una vita e darle una notizia così dolorosa, anche se attesa, richiede una buona dose di coraggio e molta intelligenza.
La totale assenza di queste due qualità genera, invece, una serie di soggetti che si possono suddividere in almeno cinque categorie che vi vado ad illustrare:
5.IL PRAGMATICO
I sentimentalismi, le frasi ricercate, i giri di parole non fanno per lui. Normalmente lascia con un messaggio via WhatsApp e, dato che è pragmatico e sa che una volta premuto il tasto invia non vi sentirà mai più, blocca pure il vostro numero. Così, una volta ricevuta la bella notizia, volendo ripagare con la stessa moneta, passerete le successive ore a studiare la risposta d’effetto e quando, finalmente, con le dita tremanti sul display la invierete, scoprirete che vi ha bloccato come un operatore di call center molesto. A quel punto il vostro umore sarà più o meno quello di un puma mestruato e, se vorrete l’ultima parola, l’unica possibilità che avrete, sarà scrivergli quella riposta sulla portiera della macchina con le chiavi.
4.L’ANALISTA
Lui deve sviscerare tutto. Analizzare ogni fatto, i segnali, i vuoti, le frasi interrotte, i significati nascosti.
In sostanza ha trovato un’altra con le tette più grosse ma non può dirvelo perché lo scopo dell’analista è quello di uscirne pulito, sempre e comunque. Normalmente vuole parlarne a cena, davanti ad un bicchiere di vino. I bicchieri diventano tre, il nostro stato confusionale aumenta, siamo stordite, intontite, poco lucide e lui parla, parla, parla. I vuoti, i segnali, le frasi interrotte, le differenze caratteriali che emergono prepotentemente ed evidenziano la diversa capacità di reazione di fronte agli imprevisti della vita.
Qualche giorno dopo, con una maggiore lucidità mentale, analizzando la conversazione con un leggero distacco capirete che dietro la frase “le differenze caratteriali che emergono prepotentemente ed evidenziano la diversa capacità di reazione di fronte agli imprevisti della vita” significa semplicemente “Ho trovato un’altra con le tette più grosse”.
3.LA CELLULA DORMIENTE
In pratica consiste nel comportarsi come una merda umana fino a quando l’altro, esasperato, non si prende il disturbo di mettere la parola fine alla relazione.
Non si è ancora capito se la motivazione che spinge una persona ad adottare detto metodo sia la codardia o la pigrizia. Attendiamo risposte dalla comunità scientifica.
2.L’ALTRUISTA
Questa categoria è un evergreen. E’ come il tubino nero, ce l’abbiamo tutte.
L’altruista è il produttore delle celebri frasi: “Non sei tu, sono io”, “Sei una persona speciale, meriti di più”.
Nonostante l’altruista sia tra le categorie meno credibili, più inflazionate e maggiormente derise, resiste nel tempo. E’ come il ratto, ha la capacità di adattarsi ad ogni cambiamento climatico e ambientale.

1.L’ILLUSIONISTA
L’illusionista è il mio preferito. Spero davvero che qualche scienziato si stia occupando di questa categoria, che stia studiando come vivono, di cosa si cibano e soprattutto che cosa accada nel loro cervello quando dicono “Ti amo, a domani” e poi spariscono nel nulla cosmico.
L’illusionista fa proprio questo. Scompare e riappare a suo piacimento. Oddio solitamente è più facile che scompaia e basta. Roba che bisognerebbe denunciarlo per procurato allarme. La sera ti bacia, fa all’amore, ti dice che per il week end ti vuole portare in un posticino carino fuori città e tu lo saluti, ignorando che sarà l’ultima volta che lo vedrai. Nessun messaggio, nessun biglietto, niente. Penserai all’incidente, alla perdita improvvisa di memoria, arriverai perfino a sospettare il rapimento da parte dei rettiliani ma mai che sia potuto sparire così.
Ancor più subdolo è quello che ogni tanto ricompare. Quello che senza il minimo rimorso, senza il minimo imbarazzo, diciamo pure con la faccia come il culo, vuol tenere il piedino in mezzo alla porta perché non si sa mai. L’illusionista subdolo riappare, solitamente dopo un paio di mesi circa, sotto le più disparate forme. Una volta è un like sotto la tua foto di una tartare su Facebook, un’altra un cuore su Instagram e dopo un paio di mesi, è addirittura capace di inviarti un “Hey come stai (emoticon deficiente)? ” su Whatsapp.
L’illusionista non va solo ignorato. Va isolato, bloccato, segnalato, impacchettato e spedito nel deserto dove vaga spaurita, da anni, la sua intelligenza.

LA RISPOSTA GIUSTA E’ IL MULTICOLORE

E’ successo all’improvviso, in un pomeriggio invernale qualunque, in cucina, con la cena da preparare ed il bambino sul seggiolone che giocava con il Didò. Aveva diversi blocchetti di vari colori e voleva mischiarli tutti insieme. Gli ho detto che non si poteva, che sarebbe venuto un pasticcio e che era meglio giocare separatamente con l’arancione, il blu, il verde ed il rosa. Tutt’al più avrebbe potuto accostarli ma mai mischiarli.
Ho continuato a cucinare ma quando mi sono voltata per dare un’occhiata a mio figlio, ho visto che aveva fatto l’opposto di ciò che gli avevo detto. Aveva preso i vari blocchetti di Didò e li aveva impastati tutti insieme. Un unico blocco multicolore.
Stavo per rimproverarlo. Per un attimo ho provato quasi fastidio per quell’ammasso sovversivo.
Poi ho capito.

Ho capito che aveva ragione lui. Che bisogna smettere di avere degli schemi mentali. Che io dovevo smettere di averne.
Dove stava scritto che i colori dovessero rimanere separati? Chi ci impediva di creare animaletti color arcobaleno ed uscire dallo scontato maialino rosa o dal pesce rosso?
Il piccolino, a soli due anni, mi aveva appena aiutato. Mesi di tormenti e lui, con un gesto apparentemente così semplice, mi aveva dato la soluzione: dovevo uscire dagli schemi che mi ero autoimposta.
A lungo ho pensato che la mia vita dovesse andare avanti così, con ogni colore ordinatamente al suo posto. Perché? Non vi so rispondere. Forse, semplicemente, avevo bisogno di tempo e avevo bisogno che qualcuno mi aprisse gli occhi anche se, lo ammetto, non mi aspettavo che quel qualcuno fosse il mini me.

Non posso sapere come sarà il 2017.

So per certo che mischierò i colori, che non mi accontenterò dei no che arriveranno – quando avrò la fortuna di ricevere una risposta – che studierò e mi rimetterò in gioco.
Forse ci vorrà molto tempo, forse non cambierà assolutamente nulla ma almeno non avrò rimpianti. Potrò dire di non essermi rassegnata a vivere tra file di colori separati perché la rassegnazione non fa parte di me. Anche se dovessi fallire, potrò dire di averci provato, fino all’ultimo.

Ci vuole coraggio, anche per mischiare i colori.

Fatelo anche voi, sempre.

Io intanto vado a scrivere il curriculum.

Vivian Maier, la donna che non seppe mai quanto grande fosse il suo talento

Immaginate di vivere un’esistenza silenziosa e anonima, sole, senza marito, figli. Di fare il lavoro di bambinaia per quarant’anni anche se non vi piace. Immaginate di avere una grande passione, la fotografia, e non pensare ad altro. Immaginate di usare tutti i vostri risparmi per acquistare una macchina fotografica, passare ogni minuto di tempo libero ad immortalare qualsiasi cosa vi circondi e di produrre una quantità mostruosa di negativi senza avere i soldi per poterli sviluppare perdendo così la possibilità di vedere il risultato del vostro lavoro. Immaginate di morire sole, in una casa di cura, con le finanze talmente ridotte all’osso che i vostri beni personali contenuti in un box vanno all’asta. Immaginate che mentre voi state morendo in solitudine, qualcuno trovi i vostri oggetti, faccia sviluppare i rullini, si accorga che in quelle fotografie c’è qualcosa di magico, speciale, magnetico. Che inizi ad indagare su di voi, che faccia ricerche e che alla fine vi trovi ma quando è troppo tardi e non può dirvi quanto siate telentuose e quanto sia preziosa l’eredità lasciata ai posteri.

La storia di Vivian Maier è agrodolce e sembra uscita dal romanzo di un fantasioso e malinconico scrittore. Se non la conoscetene rimarrete rapiti così come rimarrete rapiti dalla sua fotografia. Vi consiglio quindi di non farvi scappare la mostra fotografica Vivian Maier, Nelle sue mani all’Arengario di Monza fino all’8 gennaio. Più di cento scatti, la maggior parte dei quali mai esposti in Italia, dell’artista newyorkese, riconosciuta post mortem tra le maggiori esponenti della street photography statunitense.

Se non fosse stato per la tenacia di John Maloof, un ragazzo americano, probabilmente di Vivian non avremmo mai saputo nulla.
Nel 2007, infatti, John, volendo fare una ricerca sulla città di Chicago, e avendo poco materiale a disposizione, comprò in blocco per poco più di 300 dollari, il contenuto di un box contenente vari oggetti espropriati ad una donna che aveva smesso di pagare l’affitto. Mettendo ordine tra le varie cianfrusaglie (cappelli, vestiti, scontrini) Maloof trovò una cassa contenente centinaia di negativi e rullini ancora da sviluppare. Dopo aver stampato alcune foto, Maloof le pubblicò su Flickr ottenendo un interesse entusiastico e virale e l’incoraggiamento della community ad approfondire la sua ricerca. Pertanto fece delle indagini sulla donna, di nome Vivian Maier, che aveva scattato quelle fotografie e venne a sapere che quest’ultima non aveva famiglia ed aveva lavorato per tutta la vita come bambinaia soprattutto nella città di Chicago. Ogni volta che aveva del tempo libero, Vivian girava per la città impugnando una macchina fotografica Rolleiflex e fotografando bambini, gente comune, animali, oggetti abbandonati, graffiti, giornali e ogni altro elemento legato alla realtà.
Vivian morì nell’aprile del 2009, poco tempo prima che John Maloof, che cercava sue notizie e voleva valorizzare la sua opera, potesse trovarla e incontrarla.

La maggior parte delle sue foto sono street photos ante litteram e può essere considerata una antesignana di questo genere fotografico nonché dei selfie: sono molti, infatti, gli autoritratti, in cui non guarda mai direttamente verso l’obiettivo ma utilizza specchi o vetrine di negozi come superfici riflettenti.
Vivian non seppe mai quanto grande fosse il suo talento. O forse non le interessava farlo sapere al resto del mondo.
Eppure le sue fotografie sono una grande ricchezza. La sua capacità di cogliere ogni più piccolo particolare della vita quotidiana era straordinaria. Il suo spirito curioso e la sua attenzione ai dettagli è evidente soprattutto nei ritratti. Le sue fotografie sono finestre affacciate alla realtà, anche se quella realtà è di oltre cinquant’anni prima. Immagini profonde e mai banali che raccontano uno spaccato originale sulla vita americana della seconda metà del Ventesimo Secolo.

SONO LA BAMBINA, L’ADOLESCENTE E L’ADULTA. E TU, QUANTE ETA’ HAI?

Avevo quattro anni quando mia madre mi iscrisse a ginnastica artistica. Ricordo ancora che mi diedero un body blu con le maniche ed il colletto a V color carne e mi sembrò bellissimo. Ero la più piccola del corso e al saggio di fine anno, attraversai la sala, in fila indiana, in mezzo a bambine molto più grandi di me e quando fu il mio turno non riuscii a fare la ruota. I genitori risero. Ancora me lo ricordo. Ci rimasi male ma la mamma mi spiegò che sorridevano semplicemente perché ero così piccola che facevo tenerezza.

Avevo dodici anni, stavo giocando una partita di pallavolo e l’allenatore di una polisportiva, colpito dalla mia altezza, mi chiese se volessi allenarmi con la sua squadra, passare con le “grandi” e fare partite vere con la divisa e il logo dello sponsor sulla maglietta. Mi sentii importante, in quel momento, e risposi di sì senza sapere che le “grandi” non mi avrebbero mai accettato, che la mia timidezza non avrebbe intenerito, che la spensieratezza delle partitelle nella vecchia palestra, con i muri scrostati e le bambine gentili e sorridenti, sarebbe stata un lontano ricordo, che l’ansia da prestazione mi avrebbe consumato e ad ogni errore sarei stata massacrata perché acerba.

Avevo quattordici anni quando mi innamorai di un ragazzino di Padova e presi il treno da sola, per la prima volta, di nascosto, raccontando una bugia ai miei genitori. Al ritorno persi il treno, arrivai a casa alle nove e mezza di sera, spaventata, tremante. Trovai i miei davanti alla porta, più spaventati di me (al tempo non c’erano mica i cellulari). Mamma mi diede uno schiaffo. Io non compresi il suo terrore, lei non capì i miei primi tormenti amorosi.

Avevo quindici anni quando mi innamorai del più bello del liceo. Aveva i capelli biondi, gli occhi azzurri e avrebbe potuto fare il modello. Io ero brutta, goffa, con una permanente improbabile e sprizzavo insicurezza da tutti i pori. Nei cinque anni di innamoramento platonico lo vidi passare da una ragazza all’altra: belle, brutte, stupide, secchione ma non scelse mai me, neppure per sbaglio. L’ho rivisto molti anni dopo. Bruttarello, goffo e pure un poco scemo.

Avevo diciotto anni quando presi l’aereo per la prima volta e partii, da sola, per l’altro capo del mondo: Australia, per quasi tre mesi. A Sydney mi aspettavano un cugino e degli zii mai visti e che ancora porto nel cuore. Pensavo che quel viaggio mi avrebbe svoltato la vita: tornai con nove chili in più, un ottimo inglese e le speranze bruciate.

Avevo diciannove anni quando conobbi il dolore del tradimento. Al tempo mi sembrava che la terra si squarciasse sotto ai miei piedi e mi inghiottisse nei suoi abissi.

Avevo ventisette anni quando conobbi il dolore della morte. Un cugino muscoloso e forte ridotto a 30 chili, il respiro affannato, il freddo nelle ossa. E pochi mesi dopo il nonno, il mio gigante buono, chiudeva gli occhi color ghiaccio per sempre.

Avevo trent’anni quando vestita di organza bianca misi piede in chiesa e presi la decisione più saggia della mia vita.

Avevo trentuno anni quando conobbi l’aborto, nel peggiore dei modi, lontano da casa, con una dottoressa poco degna di quel titolo e priva di qualsiasi sensibilità.

Avevo trentadue anni quando presi in braccio per la prima volta Riccardo. Era lungo lungo e magro magro e non riuscivo a smettere di piangere e ridere.

Avevo trentatré anni quando mia nonna se ne andò portandosi via un pezzo del mio cuore.

Avevo trentasette anni quando mi smarrii nel buio. Ho conosciuto il panico, la paura, la solitudine. Ho vomitato dolore e rabbia, ansia e patimento ma sono rinata e, rinascendo, è stato tutto più bello di prima.

Ho quarantuno anni, quasi quarantadue, e dentro di me vive la bimba di quattro anni che sbaglia a fare la ruota, la dodicenne che vuole sentirsi grande, la quattordicenne che è scappata di casa, la quindicenne che si nutre di amori platonici, la diciottenne che ha paura di mangiarsi il mondo, la diciannovenne che scopre i sentimenti veri, la ventenne che incontra la morte, la trentenne che vuole la vita.

Non sono la somma delle età che ho avuto ma un insieme di quelle età. Convivono in me la bambina, l’adolescente e l’adulta.
Convivono in questo susseguirsi di giorni che paiono lenti ma scivolano come acqua tra le dita, e cercano di vivere al meglio delle proprie possibilità.

Ecco perché non smetto di sognare, di evolvermi, di cercare.

Sono irrequieta, lo sono perché non mi arrendo, perché voglio risolvere le cose che ho lasciato in sospeso, perché sono convinta che un filo sottile unisca le vite di ciascuna età e perché voglio che un giorno quella bambina di quattro anni riesca a fare quella cavolo di ruota.

IL RACCONTO DEL MESE: CANTAMI UNA CANZONE

Antonio ha le spalle curve, le mani doloranti e la faccia stanca.
Antonio inarca le grosse sopracciglia bianche che, così, compongono un arco sul suo viso scarno e manda fuori un grosso sospiro, che sa di nicotina e rassegnazione.
Antonio sistema il colletto liso della camicia bianca e aggiusta il gilet che sta un po’ largo. E’ in ritardo, anche oggi, e al titolare Domenico, per tutti Mimmo, questa cosa non piacerà.
Mimmo ha solo trentadue anni e l’atteggiamento del boss ma non ha fatto nulla per meritarsi quella posizione. E’ semplicemente nato nella famiglia giusta, quella che in oltre trent’anni si è costruita, forse anche illecitamente, una catena di ristoranti-pizzerie che rendono bene e consentono di tenere tutto in famiglia passando i locali di padre in figlio e di zio in cugino.
Antonio ha quasi settant’anni e da cinquanta lavora come cameriere. Mai un richiamo, mai un appunto. Antonio pensa di essere nato per fare il cameriere, la verità è che avrebbe potuto essere qualsiasi cosa. Antonio sa fare il suo mestiere, ha forza di volontà, garbo ed attenzione per ogni particolare. Antonio si sa rapportare alla gente, ne comprende i bisogni e i desideri. Antonio avrebbe potuto essere qualsiasi cosa e in quella cosa sarebbe stato eccellente.
A nessuno tuttavia importa che lui sia eccellente. E’ un cameriere e come tale viene trattato. Mimmo non ha le capacità per comprendere quanto la competenza di Antonio possa fare la differenza. A lui importa collezionare orologi e contare l’incasso a fine serata.
Ai colleghi camerieri di Antonio importa ancora meno. Sono per lo più ragazzetti senza voglia di studiare e tantomeno di lavorare. Si muovono tra i tavoli con la strafottenza di chi non teme di perdere il posto di lavoro perché sa che tanto, quel posto di lavoro, lo lascerà comunque. Con loro Antonio lavora il doppio perché deve badarli come si bada il nipotino capriccioso e viziato. Non può fare altrimenti, lui è il più anziano ed il capro espiatorio. Più di una volta ha raddrizzato serate particolarmente svogliate ma raramente si è sentito dire grazie.
Antonio si muove rapido e silenzioso, con dignità e fierezza, con il tovagliolo sul braccio come da tradizione e un occhio più attento alle signore alle quali ancora sposta e spolvera velocemente la sedia prima di farle accomodare.
Antonio pensa spesso di smettere. Soprattutto quando Mimmo, con il passo sgraziato, si porta dietro le tovaglie appena apparecchiate costringendolo a sistemarle di nuovo o quando gli nega un piccolo anticipo sulla paga, rigorosamente in nero, utile per pagare la bolletta del riscaldamento, aiutare sua figlia che è stata licenziata e ha due creature da mantenere o le cure di Antonia, sua moglie.
Buffo vero? Marito e moglie hanno lo stesso nome. E’ proprio grazie a quel particolare che lui, più di quarant’anni prima, trovò il coraggio di rivolgerle la parola ed imbastire una conversazione. Antonia era una ragazza bellissima, con gli occhi grandi e le fossette nelle guance. Cantava nel coro della chiesa e Antonio credeva che la sua voce ingelosisse gli angeli. Quante messe si era dovuto sorbire, lui, che al tempo aveva unicamente la domenica mattina per riposare, solo per poterla guardare indisturbato.
Nel retro della cucina del ristorante, in un fazzoletto di cortile interno in cui ci si rifugia per l’ultima sigaretta prima del turno, tra la puzza di muffa e di fritto, Antonio, a volte, chiude gli occhi e riesce ancora a vederla, in piedi, mentre canta fiera e gioiosa, nel suo vestito azzurro della festa, con lo sguardo perso nell’orizzonte.
“Che cazzo fai, muoviti che tra cinque minuti si apre!” gli urla Mimmo riportandolo alla realtà.
Antonio butta via la sigaretta ancora a metà, si asciuga gli occhi e va a lavarsi le mani. La sala è in perfetto ordine, tutto è pronto. Quel richiamo non aveva senso, avrebbe potuto tranquillamente fermarsi ad ascoltare Antonia cantare ancora un poco. Ma nulla ha un senso in quel posto, Antonio lo sa bene. Ecco perché pensa spesso di smettere ma la sola pensione non basta.
La serata è difficile. E’ sabato, il locale è pieno, Mimmo e il pizzaiolo hanno litigato, sono entrambi nervosi. Il modo migliore per superare indenni le ore di lavoro è stare a testa bassa, dire sempre sì ed essere veloci. C’è una comitiva di adolescenti che urla troppo e si lancia molliche di pane che poi Antonio dovrà cercare in ogni angolo del pavimento. Ci sono quattro bambini che corrono e urlano per la sala, uno di loro ha fatto cadere un bicchiere, un altro per poco non rovescia un vassoio pieno di piatti e nessuno degli adulti che li accompagna dice niente perché troppo impegnato a conversare. C’è un uomo che ha mandato indietro una pizza troppo cotta e una birra troppo calda e una ragazza intollerante ad ogni alimento che vorrebbe modificare un piatto (precotto) cambiando circa dieci ingredienti.
Antonio non si scoraggia, nella sua lunga carriera ha visto e subìto di peggio. Pensa ad Antonia, a casa, sulla sua poltrona, con la coperta di lana sulle gambe mentre guarda la tv o scorre vecchie foto.
E’ così che si scalda il cuore Antonio, andando a casa con la mente mentre la sala è un inferno di voci, risate sguaiate e posate che cadono.
Quando Antonio finalmente si toglie il grembiule è l’una passata. Mimmo è già andato via, probabilmente a sputtanarsi l’incasso della serata in qualche locale dove ordinerà bottiglie costose solo per impressionare gli amici. E’ così che butterà via i soldi che ad Antonio ha negato. Soldi che gli impedirebbero di ricevere l’ennesima telefonata dalla signorina della finanziaria, quella che con la vocina delicata e il tono gentile pronuncia parole che affilano come rasoi: rate scadute, ufficiali giudiziari, pignoramento della pensione.
“Chi era al telefono, Anto’?”
“Nessuno, Nenè, le solite offerte commerciali dei telefonini.”
“E tu perché ci perdi tempo? Metti giù. Senti, Anto’, Chiara mi ha detto che a Filippo devono mettere l’apparecchio per i denti. Che è costoso assai. Mo’ gliel’ho detto che magari chiedi un anticipo della paga a Don Mimmo e poi quando arriva la pensione l’aiutiamo noi. Ma che hai Antonio? Sei stanco?”
“No, sto bene. Mo’ ci penso io, non ti preoccupare. Don Mimmo è bravo vedrai che m’aiuta. Lo sai a che pensavo, Nenè?”
“A che?”
“Ti voglio regalare un bel vestito azzurro. Come quello che avevi quando t’ho conosciuta, ti ricordi?”
“Uh Anto’, ancora a quel vestito pensi. Mo’ so’ vecchia mo’. A che mi serve un vestito nuovo? E poi non dobbiamo scialacquare soldi.”
“Quale vecchia, fossero tutte come a te! Ai soldi ci penso io. Il giorno che c’ho libero posso andare da Peppe, a mare, dice che è sempre pieno e ha bisogno di gente.”
“Ma pure il giorno libero vuoi lavorare, mo’?”
“Basta parlare di lavoro. Nenè, cantami quella canzone, quella mi piace assai.”

ANSIA DA REGALO? NON PIU’ CON LA MINI PLANNER DI FRANCESCA MEANA DESIGN

Avete l’ansia da regalo? Temete di arrivare all’ultimo con la sola possibilità di acquistare sali da bagno o la trousse di Pupa? Volete un’idea originale dai costi contenuti e che vi faccia fare un figurone?

Ho la soluzione per voi.

La Mini Planner di Francesca Meana Design è uno degli oggetti più originali che circolano in questo momento e credo che presto diverrà un must have.

Che cos’ha di originale? TUTTO.

Intanto la copertina è personalizzabile. Ciò significa che oltre a poter scegliere tra una vasta gamma di immagini e colori, potete renderla unica facendoci scrivere sopra il nome, il nick usato sui social o il soprannome.

L’originalità non si trova solo all’esterno ma anche all’interno della mini planner in quanto la sua creatrice, insieme ai giorni e ai mesi rigorosamente scritti a mano, ha inserito quelli che lei chiama “elementi di disturbo” ossia disegni, commenti e tanto spazio per scrivere pensieri o semplicemente liste di cose da fare. Insomma da semplice agenda può trasformarsi in un simpatico diario sul quale appuntare quello che verrà nel nuovo anno.

E’ stata concepita per restare aperta sul vostro tavolo o la vostra scrivania ma si trasporta facilmente in borsa grazie alle dimensioni contenute.

Per info, aggiornamenti e disponibilità potete andare sulla pagina Facebook che trovate qui.

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SIAMO TUTTE CAGNE

Se pensate che la giornata contro la violenza sulle donne sia principalmente un messaggio che va indirizzato agli uomini avete perso in partenza.

Se pensate che la giornata contro la violenza sulle donne sia postare una foto in memoria di Melania Rea, subito dopo aver dato della cagna ad una fashion blogger poco vestita su Instagram, ecco, abbiamo perso tutti.

Perché la violenza non riguarda solo le botte. La violenza è anche quella delle parole, degli insulti gratuiti, dell’intolleranza. E coinvolge tutti. Anche le donne stesse: a volte protagoniste, altre volte complici silenziose.

Allora, ancor prima di condividere le foto delle scarpe rosse, dovremmo ricordarci del rispetto. E, cosa ancor più difficile, dovremmo liberarci una volta per tutte di quei pregiudizi primitivi e maschilisti che denigrano la donna e la rendono facile vittima di insulti e derisioni.

Mi rivolgo soprattutto alle donne.

Siamo tutte cagne, troie, puttane per chi non sa cosa sia il rispetto per l’altro.

Siamo tutte potenziali vittime di violenza.

E allora insegniamo ai nostri figli il rispetto e non dovremo spiegare loro che una donna non si picchia e non si offende. E diamo per prime l’esempio agli altri evitando offese gratuite e per motivi futili solo perché ci sentiamo dalla parte della ragione o perché l’anonimato e uno schermo ci “proteggono”.

Uno schiaffo da parte di un uomo non fa meno male di un “troia” scritto o urlato da una donna.

Se ci stanno davvero a cuore le donne, dimostriamolo con i fatti. Noi, per prime.

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I DUE DI PICCHE GNE’ GNE’ GNE’

Chi mi segue da tempo sa che non sono una persona che tende a fare di tutta un’erba un fascio. Avendo poi io una mentalità più maschile che femminile, devo ammettere di solidarizzare molto più spesso con gli uomini che con le donne. Tuttavia, c’è una categoria di uomini che proprio non sopporto e sono quelli che io chiamo “i due di picche gnè gnè gnè”.

I due di picche gnè gnè gnè sono quelli che di fronte al rifiuto di una donna solitamente hanno una di queste due reazioni: offendono il loro oggetto del desiderio oppure tentano di farlo sentire un’idiota giocando sul fraintendimento.

Sulla prima categoria c’è poco da dire. Fino ad un minuto prima sei “una donna con la D maiuscola, quella con le stelle rubate al cielo e messe al posto degli occhi, quella che scrive benissimo, si muove benissimo, si veste benissimo” e che, magicamente, un minuto dopo il NO, si trasforma nella “stronza figa di legno ma chi ti credi di essere devi restare zitella a vita”. Solitamente sono solo dei cafoni e vanno lasciati nella melma in cui nuotano tutto il giorno.

La seconda categoria invece è quella che trovo più insopportabile. Sono quelli che si infilano nella tua vita in punta di piedi con il fare da amicone pizza/birra e inoffensivi come cuccioli di Panda.

Quelli che ti chiedono come stai, che vogliono sapere come è andata la giornata o che commentano una tua foto senza fare complimenti alla persona ma disquisendo unicamente sulla scelta del filtro o della location.

Ovviamente di fronte a questo atteggiamento nessuna ha motivo di essere scortese, anzi, è piacevole poter scambiare quattro chiacchiere con l’altro sesso senza doversi preoccupare di respingere delle avances. Ma ecco che proprio quando abbassiamo le difese, arrivano frasi o atteggiamenti che, pur non espliciti, ci fanno chiaramente capire che il tizio ci stia provando.

A questo punto di fronte ad un no, il due di picche gnè gnè gnè ha sempre la stessa reazione tra l’indignato e l’offeso perché “cara mia, HAI FRAINTESO, cioè ma davvero pensi che con tutte le donne che ogni giorno attraversano il mio letto io abbia bisogno di venire ad elemosinare attenzioni da te?”

Questa è una vera e propria manipolazione mentale che spesso porta le donne più sensibili addirittura a scusarsi per aver OSATO pensare ad una cosa del genere.

Una manipolazione mentale che col tempo, purtroppo, inevitabilmente ci condiziona e trasforma ogni interazione con l’altro sesso in una fonte di stress.

Ora, veramente, capisco che un NO possa bruciare. Insomma io ci rimango male se la cassiera dell’Esselunga non mi saluta, figuriamoci se ricevo un rifiuto dal tipo che mi piace.

Tuttavia, reazioni come quelle sopra descritte, anche se probabilmente fanno sentire meglio chi le pone in essere, in realtà fanno fare la figura dei coglioni.

Rispondere “Pazienza, io ci ho provato perché sei una bella persona e mi piaci” darebbe a voi uomini la possibilità di uscire di scena da veri signori lasciando peraltro una buona impressione.

E se state pensando “Sì ma con le buone impressioni non si scopa” ricordatevi sempre che la donna che parla bene di voi ha delle amiche.

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