SONO LA BAMBINA, L’ADOLESCENTE E L’ADULTA. E TU, QUANTE ETA’ HAI?

Avevo quattro anni quando mia madre mi iscrisse a ginnastica artistica. Ricordo ancora che mi diedero un body blu con le maniche ed il colletto a V color carne e mi sembrò bellissimo. Ero la più piccola del corso e al saggio di fine anno, attraversai la sala, in fila indiana, in mezzo a bambine molto più grandi di me e quando fu il mio turno non riuscii a fare la ruota. I genitori risero. Ancora me lo ricordo. Ci rimasi male ma la mamma mi spiegò che sorridevano semplicemente perché ero così piccola che facevo tenerezza.

Avevo dodici anni, stavo giocando una partita di pallavolo e l’allenatore di una polisportiva, colpito dalla mia altezza, mi chiese se volessi allenarmi con la sua squadra, passare con le “grandi” e fare partite vere con la divisa e il logo dello sponsor sulla maglietta. Mi sentii importante, in quel momento, e risposi di sì senza sapere che le “grandi” non mi avrebbero mai accettato, che la mia timidezza non avrebbe intenerito, che la spensieratezza delle partitelle nella vecchia palestra, con i muri scrostati e le bambine gentili e sorridenti, sarebbe stata un lontano ricordo, che l’ansia da prestazione mi avrebbe consumato e ad ogni errore sarei stata massacrata perché acerba.

Avevo quattordici anni quando mi innamorai di un ragazzino di Padova e presi il treno da sola, per la prima volta, di nascosto, raccontando una bugia ai miei genitori. Al ritorno persi il treno, arrivai a casa alle nove e mezza di sera, spaventata, tremante. Trovai i miei davanti alla porta, più spaventati di me (al tempo non c’erano mica i cellulari). Mamma mi diede uno schiaffo. Io non compresi il suo terrore, lei non capì i miei primi tormenti amorosi.

Avevo quindici anni quando mi innamorai del più bello del liceo. Aveva i capelli biondi, gli occhi azzurri e avrebbe potuto fare il modello. Io ero brutta, goffa, con una permanente improbabile e sprizzavo insicurezza da tutti i pori. Nei cinque anni di innamoramento platonico lo vidi passare da una ragazza all’altra: belle, brutte, stupide, secchione ma non scelse mai me, neppure per sbaglio. L’ho rivisto molti anni dopo. Bruttarello, goffo e pure un poco scemo.

Avevo diciotto anni quando presi l’aereo per la prima volta e partii, da sola, per l’altro capo del mondo: Australia, per quasi tre mesi. A Sydney mi aspettavano un cugino e degli zii mai visti e che ancora porto nel cuore. Pensavo che quel viaggio mi avrebbe svoltato la vita: tornai con nove chili in più, un ottimo inglese e le speranze bruciate.

Avevo diciannove anni quando conobbi il dolore del tradimento. Al tempo mi sembrava che la terra si squarciasse sotto ai miei piedi e mi inghiottisse nei suoi abissi.

Avevo ventisette anni quando conobbi il dolore della morte. Un cugino muscoloso e forte ridotto a 30 chili, il respiro affannato, il freddo nelle ossa. E pochi mesi dopo il nonno, il mio gigante buono, chiudeva gli occhi color ghiaccio per sempre.

Avevo trent’anni quando vestita di organza bianca misi piede in chiesa e presi la decisione più saggia della mia vita.

Avevo trentuno anni quando conobbi l’aborto, nel peggiore dei modi, lontano da casa, con una dottoressa poco degna di quel titolo e priva di qualsiasi sensibilità.

Avevo trentadue anni quando presi in braccio per la prima volta Riccardo. Era lungo lungo e magro magro e non riuscivo a smettere di piangere e ridere.

Avevo trentatré anni quando mia nonna se ne andò portandosi via un pezzo del mio cuore.

Avevo trentasette anni quando mi smarrii nel buio. Ho conosciuto il panico, la paura, la solitudine. Ho vomitato dolore e rabbia, ansia e patimento ma sono rinata e, rinascendo, è stato tutto più bello di prima.

Ho quarantuno anni, quasi quarantadue, e dentro di me vive la bimba di quattro anni che sbaglia a fare la ruota, la dodicenne che vuole sentirsi grande, la quattordicenne che è scappata di casa, la quindicenne che si nutre di amori platonici, la diciottenne che ha paura di mangiarsi il mondo, la diciannovenne che scopre i sentimenti veri, la ventenne che incontra la morte, la trentenne che vuole la vita.

Non sono la somma delle età che ho avuto ma un insieme di quelle età. Convivono in me la bambina, l’adolescente e l’adulta.
Convivono in questo susseguirsi di giorni che paiono lenti ma scivolano come acqua tra le dita, e cercano di vivere al meglio delle proprie possibilità.

Ecco perché non smetto di sognare, di evolvermi, di cercare.

Sono irrequieta, lo sono perché non mi arrendo, perché voglio risolvere le cose che ho lasciato in sospeso, perché sono convinta che un filo sottile unisca le vite di ciascuna età e perché voglio che un giorno quella bambina di quattro anni riesca a fare quella cavolo di ruota.