Vivian Maier, la donna che non seppe mai quanto grande fosse il suo talento

Immaginate di vivere un’esistenza silenziosa e anonima, sole, senza marito, figli. Di fare il lavoro di bambinaia per quarant’anni anche se non vi piace. Immaginate di avere una grande passione, la fotografia, e non pensare ad altro. Immaginate di usare tutti i vostri risparmi per acquistare una macchina fotografica, passare ogni minuto di tempo libero ad immortalare qualsiasi cosa vi circondi e di produrre una quantità mostruosa di negativi senza avere i soldi per poterli sviluppare perdendo così la possibilità di vedere il risultato del vostro lavoro. Immaginate di morire sole, in una casa di cura, con le finanze talmente ridotte all’osso che i vostri beni personali contenuti in un box vanno all’asta. Immaginate che mentre voi state morendo in solitudine, qualcuno trovi i vostri oggetti, faccia sviluppare i rullini, si accorga che in quelle fotografie c’è qualcosa di magico, speciale, magnetico. Che inizi ad indagare su di voi, che faccia ricerche e che alla fine vi trovi ma quando è troppo tardi e non può dirvi quanto siate telentuose e quanto sia preziosa l’eredità lasciata ai posteri.

La storia di Vivian Maier è agrodolce e sembra uscita dal romanzo di un fantasioso e malinconico scrittore. Se non la conoscetene rimarrete rapiti così come rimarrete rapiti dalla sua fotografia. Vi consiglio quindi di non farvi scappare la mostra fotografica Vivian Maier, Nelle sue mani all’Arengario di Monza fino all’8 gennaio. Più di cento scatti, la maggior parte dei quali mai esposti in Italia, dell’artista newyorkese, riconosciuta post mortem tra le maggiori esponenti della street photography statunitense.

Se non fosse stato per la tenacia di John Maloof, un ragazzo americano, probabilmente di Vivian non avremmo mai saputo nulla.
Nel 2007, infatti, John, volendo fare una ricerca sulla città di Chicago, e avendo poco materiale a disposizione, comprò in blocco per poco più di 300 dollari, il contenuto di un box contenente vari oggetti espropriati ad una donna che aveva smesso di pagare l’affitto. Mettendo ordine tra le varie cianfrusaglie (cappelli, vestiti, scontrini) Maloof trovò una cassa contenente centinaia di negativi e rullini ancora da sviluppare. Dopo aver stampato alcune foto, Maloof le pubblicò su Flickr ottenendo un interesse entusiastico e virale e l’incoraggiamento della community ad approfondire la sua ricerca. Pertanto fece delle indagini sulla donna, di nome Vivian Maier, che aveva scattato quelle fotografie e venne a sapere che quest’ultima non aveva famiglia ed aveva lavorato per tutta la vita come bambinaia soprattutto nella città di Chicago. Ogni volta che aveva del tempo libero, Vivian girava per la città impugnando una macchina fotografica Rolleiflex e fotografando bambini, gente comune, animali, oggetti abbandonati, graffiti, giornali e ogni altro elemento legato alla realtà.
Vivian morì nell’aprile del 2009, poco tempo prima che John Maloof, che cercava sue notizie e voleva valorizzare la sua opera, potesse trovarla e incontrarla.

La maggior parte delle sue foto sono street photos ante litteram e può essere considerata una antesignana di questo genere fotografico nonché dei selfie: sono molti, infatti, gli autoritratti, in cui non guarda mai direttamente verso l’obiettivo ma utilizza specchi o vetrine di negozi come superfici riflettenti.
Vivian non seppe mai quanto grande fosse il suo talento. O forse non le interessava farlo sapere al resto del mondo.
Eppure le sue fotografie sono una grande ricchezza. La sua capacità di cogliere ogni più piccolo particolare della vita quotidiana era straordinaria. Il suo spirito curioso e la sua attenzione ai dettagli è evidente soprattutto nei ritratti. Le sue fotografie sono finestre affacciate alla realtà, anche se quella realtà è di oltre cinquant’anni prima. Immagini profonde e mai banali che raccontano uno spaccato originale sulla vita americana della seconda metà del Ventesimo Secolo.