IL RACCONTO DEL MESE: CANTAMI UNA CANZONE

Antonio ha le spalle curve, le mani doloranti e la faccia stanca.
Antonio inarca le grosse sopracciglia bianche che, così, compongono un arco sul suo viso scarno e manda fuori un grosso sospiro, che sa di nicotina e rassegnazione.
Antonio sistema il colletto liso della camicia bianca e aggiusta il gilet che sta un po’ largo. E’ in ritardo, anche oggi, e al titolare Domenico, per tutti Mimmo, questa cosa non piacerà.
Mimmo ha solo trentadue anni e l’atteggiamento del boss ma non ha fatto nulla per meritarsi quella posizione. E’ semplicemente nato nella famiglia giusta, quella che in oltre trent’anni si è costruita, forse anche illecitamente, una catena di ristoranti-pizzerie che rendono bene e consentono di tenere tutto in famiglia passando i locali di padre in figlio e di zio in cugino.
Antonio ha quasi settant’anni e da cinquanta lavora come cameriere. Mai un richiamo, mai un appunto. Antonio pensa di essere nato per fare il cameriere, la verità è che avrebbe potuto essere qualsiasi cosa. Antonio sa fare il suo mestiere, ha forza di volontà, garbo ed attenzione per ogni particolare. Antonio si sa rapportare alla gente, ne comprende i bisogni e i desideri. Antonio avrebbe potuto essere qualsiasi cosa e in quella cosa sarebbe stato eccellente.
A nessuno tuttavia importa che lui sia eccellente. E’ un cameriere e come tale viene trattato. Mimmo non ha le capacità per comprendere quanto la competenza di Antonio possa fare la differenza. A lui importa collezionare orologi e contare l’incasso a fine serata.
Ai colleghi camerieri di Antonio importa ancora meno. Sono per lo più ragazzetti senza voglia di studiare e tantomeno di lavorare. Si muovono tra i tavoli con la strafottenza di chi non teme di perdere il posto di lavoro perché sa che tanto, quel posto di lavoro, lo lascerà comunque. Con loro Antonio lavora il doppio perché deve badarli come si bada il nipotino capriccioso e viziato. Non può fare altrimenti, lui è il più anziano ed il capro espiatorio. Più di una volta ha raddrizzato serate particolarmente svogliate ma raramente si è sentito dire grazie.
Antonio si muove rapido e silenzioso, con dignità e fierezza, con il tovagliolo sul braccio come da tradizione e un occhio più attento alle signore alle quali ancora sposta e spolvera velocemente la sedia prima di farle accomodare.
Antonio pensa spesso di smettere. Soprattutto quando Mimmo, con il passo sgraziato, si porta dietro le tovaglie appena apparecchiate costringendolo a sistemarle di nuovo o quando gli nega un piccolo anticipo sulla paga, rigorosamente in nero, utile per pagare la bolletta del riscaldamento, aiutare sua figlia che è stata licenziata e ha due creature da mantenere o le cure di Antonia, sua moglie.
Buffo vero? Marito e moglie hanno lo stesso nome. E’ proprio grazie a quel particolare che lui, più di quarant’anni prima, trovò il coraggio di rivolgerle la parola ed imbastire una conversazione. Antonia era una ragazza bellissima, con gli occhi grandi e le fossette nelle guance. Cantava nel coro della chiesa e Antonio credeva che la sua voce ingelosisse gli angeli. Quante messe si era dovuto sorbire, lui, che al tempo aveva unicamente la domenica mattina per riposare, solo per poterla guardare indisturbato.
Nel retro della cucina del ristorante, in un fazzoletto di cortile interno in cui ci si rifugia per l’ultima sigaretta prima del turno, tra la puzza di muffa e di fritto, Antonio, a volte, chiude gli occhi e riesce ancora a vederla, in piedi, mentre canta fiera e gioiosa, nel suo vestito azzurro della festa, con lo sguardo perso nell’orizzonte.
“Che cazzo fai, muoviti che tra cinque minuti si apre!” gli urla Mimmo riportandolo alla realtà.
Antonio butta via la sigaretta ancora a metà, si asciuga gli occhi e va a lavarsi le mani. La sala è in perfetto ordine, tutto è pronto. Quel richiamo non aveva senso, avrebbe potuto tranquillamente fermarsi ad ascoltare Antonia cantare ancora un poco. Ma nulla ha un senso in quel posto, Antonio lo sa bene. Ecco perché pensa spesso di smettere ma la sola pensione non basta.
La serata è difficile. E’ sabato, il locale è pieno, Mimmo e il pizzaiolo hanno litigato, sono entrambi nervosi. Il modo migliore per superare indenni le ore di lavoro è stare a testa bassa, dire sempre sì ed essere veloci. C’è una comitiva di adolescenti che urla troppo e si lancia molliche di pane che poi Antonio dovrà cercare in ogni angolo del pavimento. Ci sono quattro bambini che corrono e urlano per la sala, uno di loro ha fatto cadere un bicchiere, un altro per poco non rovescia un vassoio pieno di piatti e nessuno degli adulti che li accompagna dice niente perché troppo impegnato a conversare. C’è un uomo che ha mandato indietro una pizza troppo cotta e una birra troppo calda e una ragazza intollerante ad ogni alimento che vorrebbe modificare un piatto (precotto) cambiando circa dieci ingredienti.
Antonio non si scoraggia, nella sua lunga carriera ha visto e subìto di peggio. Pensa ad Antonia, a casa, sulla sua poltrona, con la coperta di lana sulle gambe mentre guarda la tv o scorre vecchie foto.
E’ così che si scalda il cuore Antonio, andando a casa con la mente mentre la sala è un inferno di voci, risate sguaiate e posate che cadono.
Quando Antonio finalmente si toglie il grembiule è l’una passata. Mimmo è già andato via, probabilmente a sputtanarsi l’incasso della serata in qualche locale dove ordinerà bottiglie costose solo per impressionare gli amici. E’ così che butterà via i soldi che ad Antonio ha negato. Soldi che gli impedirebbero di ricevere l’ennesima telefonata dalla signorina della finanziaria, quella che con la vocina delicata e il tono gentile pronuncia parole che affilano come rasoi: rate scadute, ufficiali giudiziari, pignoramento della pensione.
“Chi era al telefono, Anto’?”
“Nessuno, Nenè, le solite offerte commerciali dei telefonini.”
“E tu perché ci perdi tempo? Metti giù. Senti, Anto’, Chiara mi ha detto che a Filippo devono mettere l’apparecchio per i denti. Che è costoso assai. Mo’ gliel’ho detto che magari chiedi un anticipo della paga a Don Mimmo e poi quando arriva la pensione l’aiutiamo noi. Ma che hai Antonio? Sei stanco?”
“No, sto bene. Mo’ ci penso io, non ti preoccupare. Don Mimmo è bravo vedrai che m’aiuta. Lo sai a che pensavo, Nenè?”
“A che?”
“Ti voglio regalare un bel vestito azzurro. Come quello che avevi quando t’ho conosciuta, ti ricordi?”
“Uh Anto’, ancora a quel vestito pensi. Mo’ so’ vecchia mo’. A che mi serve un vestito nuovo? E poi non dobbiamo scialacquare soldi.”
“Quale vecchia, fossero tutte come a te! Ai soldi ci penso io. Il giorno che c’ho libero posso andare da Peppe, a mare, dice che è sempre pieno e ha bisogno di gente.”
“Ma pure il giorno libero vuoi lavorare, mo’?”
“Basta parlare di lavoro. Nenè, cantami quella canzone, quella mi piace assai.”