UNO STRALCIO DELL’ULTIMO GIORNO

«Ho fatto la ciambella usando la tua ricetta. Oh, se non ti piace dimmelo e lasciala lì, lo sai che io non sono brava come te. Com’è?».

«Dammi il tempo di mandarla giù, Franca».

«Non dici niente, il sapore lo avrai sentito, o no? Ti piace o no?».

«Ma sì…è buona».

«Si capisce quando dici una bugia, vé?».

«Ma sì, è buona… forse è un po’ duretta. Ci avrai messo un po’ troppa farina».

«Guarda che è la tua ricetta, vé?».

«Ma sì, mica ho detto che è cattiva… forse ti è scappata un po’ la mano sulla farina, ecco».

«Ma insomma io ho seguito la tua ricetta, non mi sembra».

«Me lo hai detto tu di dirti la verità, se poi t’offendi…».

«Ma no che non mi offendo, solo che dici che ho messo troppa farina e io, invece, ho messo la farina che mi hai detto tu, vé?».

«Allora com’è che a me, con la stessa ricetta, viene morbida?».

«Oh, insomma, la prossima volta ti faccio lo stufato di salsiccia e fagioli, che quello mi viene bene, eh?».

«Quello sì che è leggero. Mi vuoi far morire nel sonno come la Luisa?».

«Be’ e non saresti contenta?».

«Di morire nel sonno sì ma non per mano tua. Poi ti tocca pure andare in galera».

«Ti preoccupi per me che vado in galera e non per te che muori, sei proprio un bel tipo, vé? Non la finisci la ciambella?».

«No, adesso non mi va. Non ho tanta fame».

«Non hai tanta fame o non ti piace?».

«Ricominciamo da capo? Mi farai tornare la febbre!».

«Per carità, che poi mi tocca andare dal signor Giorgio al posto tuo e Dio solo sa quanto mi ha fatto impazzire la scorsa settimana!».

«Non lo sai prendere».

«Oh insomma, non so prendere il signor Giorgio, non so fare la ciambella, sai cosa ti dico? Adesso vado a casa che son stufa».

«Dai Franca vieni qui che adesso inizia la Maria De Filippi!».

«Oggi chi c’è, il trono dei giovani o dei vecchi?».

«Franca anche i vecchi a nostro confronto sono giovani. C’è sempre il trono dei giovani per quel che ne so».

«Parla per te! Io potrei anche andare a trovarmi un omino se volessi. Eh ridi, ridi. Che ne sai, magari ne trovo uno con i soldi e faccio la signora almeno per gli ultimi anni che mi restano».

«Ah bell’amica che sei! Mi lasceresti qui a marcire tra i topi per un omino della De Filippi?».

«Be’ magari ha un amico ricco per te!».

Le due donne risero di gusto e si accomodarono sul divano per commentare la tv insieme.

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SICURO CHE TU VO’ FA’ L’AMERICANO?

Sono cresciuta con i film e le serie tv americane e ammetto di subirne  il fascino ma ci sono alcuni aspetti che mi lasciano perplessa e sui quali, sono convinta, anche voi vi sarete posti qualche domanda.

Ecco le principali:

1) PERCHE’ SONO ZOZZI?
In qualunque ambiente siano, qualunque sia il ceto sociale di appartenenza, non solo una volta entrati in casa non si tolgono le scarpe ma con le scarpe si sdraiano sul divano e sul letto. Ma perché? Sono sempre sotto la doccia, questo è accertato, quindi, insomma, all’igiene e alla pulizia ci tengono e allora come fanno a tollerare che le stesse suole che hanno pestato l’inimmaginabile in ogni angolo di strada, possano poi toccare superfici in cui poi poggiano la faccia?

2) PERCHE’ NON CHIUDONO MAI LA PORTA E NON SPENGONO LE LUCI?
Forse hanno sistemi di illuminazione e di allarme che noi ignoriamo oppure le compagnie che forniscono luce elettrica offrono servizi di erogazione a tariffa fissa tipo All You Can Light e non a consumo, altrimenti non si spiega come mai non ci sia nessuno che uscendo di casa chiuda a chiave la porta o spenga la luce. Quante volte vi capita di notarlo? O di notare che rientrano a casa e ci sono già tutte le luci accese.
Per non parlare del fatto che sia i familiari che i vicini di casa entrano nelle abitazioni senza neppure bussare come se fossero al bar.

3) PERCHE’ NON FINISCONO MAI UN PASTO AL RISTORANTE?
Che sia un primo appuntamento (e allora lì posso capire che la tensione possa chiudere lo stomaco) o un pranzo di lavoro, nessuno mangia mai. Al massimo assaggia un boccone. Tu vedi questi bei piatti con dentro mezzo chilo di filetto fumante e intanto questi parlano, parlano che ti verrebbe voglia di urlare “MA MANGIA CHE TI SI STANNO RAFREDDANDO 60 DOLLARI DI BISTECCA!”.
A volte, durante queste cene, capitano momenti di tensione e finisce pure che uno dei due si alzi e se ne vada lasciando quel ben di Dio in tavola. Diciamo che questa è la parte meno realistica in assoluto perché la verità, belli miei, è che so ho un filetto da 60 dollari nel piatto, pure se mi fai girare le scatole, io non mi alzo finché non ho finito…

4) PERCHE’ PAGANO IL CONTO LASCIANDO BANCONOTE A CASO?
Per restare in tema di pranzi e cene al ristorante, un’altra scena tipica è quella che riguarda il pagamento del conto. Al protagonista non è stato portato il conto, non conosce il totale, a volte arriva addirittura a pasto finito eppure, prima di uscire, tira fuori dalla tasca un certo numero di banconote, le butta sul tavolo e va via. E IL RESTO? E se ha fatto il furbo e ha messo meno? Non lo sapremo mai.

5) PERCHE’ QUANDO CONCLUDONO UNA TELEFONATA NON SI SALUTANO MAI?
No, davvero, ma come fa un povero Cristo a sapere se la telefonata è finita se non dici almeno un “ciao”? Non dico di fare come mia nonna con la quale c’era un minuto di conversazione e cinque di “Ciao, Ciao amore mio, Ciao bella, a domani, Ciao, Ciao, Ciao bella sai? Ciao”, ma almeno fammi capire che abbiamo finito. E invece quelli parlano e:
– Tu fai come ho detto.
– Ho capito farò come hai detto.
*click*
Ma click cosa? Ma vi immaginate a parlare con uno di questi? Quello mette giù, fa la doccia, si veste, va al lavoro e voi state ancora lì con il telefono in mano.

6) PERCHE’ PRENDONO APPUNTAMENTI APPROSSIMATIVI?
Le persone normali quando si devono incontrare stabiliscono il giorno, l’ora ed il luogo. Giusto? Sbagliato. Nei film americani tutto questo è superato.
“Ti passo a prendere domani.”
MA PASSI DOVE? DOMANI QUANDO?
VI SIETE APPENA CONOSCIUTI, LAVORI ALLA DIGOS?

7) PERCHE’ LIMONANO APPENA SVEGLI?
Mattina, interno giorno, una coppia si sveglia, si guarda e parte il limone con mezzo metro di lingua.
La mattina. Appena svegli.
Ora io comprendo che, noi “donne normali”, se aprissimo gli occhi e davanti ci trovassimo Chris Hemsworth lo limoneremmo anche se avesse appena appena mangiato l’intestino crudo di un ratto ma in “quella realtà lì” Chris Hemsworth dovrebbe essere “un uomo normale” tipo quello che ci siede accanto sul divano in tenuta Quechua e quella dovrebbe essere una situazione “normale”. Ecco, in una situazione normale il massimo del limone è il bacetto a stampo in apnea come quello che a otto anni dai alla zia baffuta che ti regala la busta a Natale.

8) COME FANNO A DORMIRE SENZA NEPPURE UN’IMPOSTA SOCCHIUSA?
Io se non ho il buio pesto e il silenzio più totale non dormo. Capisco di essere un’eccezione, anche se non rara, ma mi sono sempre chiesta come facciano questi a dormire beati fino alle otto della mattina avendo il letto sotto a un finestrone grande quanto quello di una chiesa senza imposte e senza neppure una tenda davanti. Roba che alle 5 della mattina hanno un raggio di sole largo quanto una piscina olimpionica sulla fronte e invece di stare con gli occhi sgranati e la voglia di morire, russano come bambini.

9) PERCHE’ TROVANO SEMPRE PARCHEGGIO?
Non importa che siano a New York o a Tulsa, in periferia o in pieno centro città, quando raggiungono un posto in auto, parcheggiano esattamente davanti al luogo in cui devono entrare. Non un centimetro più a destra, non un centimetro più sinistra. Esattamente di fronte al portone di ingresso. Solo per questo vorrei andare a vivere negli USA.

10) PERCHE’ GLI AMERICANI, QUANDO ACCOMPAGNANO QUALCUNO ALL’AEROPORTO, OLTRE OVVIAMENTE A PARCHEGGIARE DAVANTI ALL’ENTRATA, SI POSSONO SALUTARE E BACIARE PRATICAMENTE A UN METRO DAL GATE, – CHE E’ TANTO ROMANTICO – MENTRE NOI CI DOBBIAMO DIRE ARRIVEDERCI DAVANTI AL KEBABBARO CHE APPENA STA FUORI DALL’USCITA DELLA TANGENZIALE?

Se conoscete le risposte, non esitate a scrivermi.

E TU, SEI CORAGGIOSO?

Mi è stato chiesto se sono una persona coraggiosa.
Non ho saputo rispondere, almeno inizialmente. Non ho avuto un’esistenza molto avventurosa, almeno fino ad oggi.
Poi l’illuminazione.
Sono una persona coraggiosa? Sì, lo sono.
Negli ultimi dieci anni ho messo in discussione gli aspetti più importanti della mia vita.
Il rapporto con i miei genitori, l’amore, il mio percorso lavorativo.
Se pensate che non occorra avere coraggio per mettersi in discussione, significa che non lo avete mai fatto veramente, non nel modo giusto almeno.
Occorre essere lucidi, obiettivi e dare spazio alla verità. E la verità può essere spietata.
Mettersi in discussione è un percorso doloroso. Significa affrontare i propri spettri, togliere la bella confezione nella quale abbiamo infilato le nostre convinzioni e scoprire se sotto alll’involucro, il contenuto si sia mantenuto in buone condizioni oppure sia marcito. Significa alzare il tappeto e respirare la polvere che abbiamo nascosto per anni.
Tutti ci costruiamo una comfort zone: insomma chi li vuole i problemi, non ne abbiamo già abbastanza? Che sia la famiglia, un rapporto di coppia, un’amicizia sbagliata o un lavoro. Restiamo fermi pensando di limitare i danni e intanto stagniamo, nell’egoistica speranza che qualcuno o qualcosa venga a bonificare l’area al posto nostro.
Non vi dirò le classiche frasi di circostanza tipo: “La forza di cambiare dobbiamo trovarla dentro di noi/ volere e potere” ecc… non perché non ci creda ma perché trovo inutile sottolineare l’ovvio.
Ciò che posso dirvi è che arriva un momento in cui lo capiamo che se non usciremo da una determinata situazione, ci creperemo lì dentro. E’ quello il momento in cui si decide se essere coraggiosi o codardi. E’ quello il momento della scelta consapevole. E se è vero che accettare una realtà che non ci piace fa male, è altrettanto vero che la naturale conseguenza di questa presa di coscienza sarà liberarsi per sempre di ciò che ci danneggia, ci rende infelici o semplicemente inetti.
E voi, siete coraggiosi?

CHI PIU’ SPENDE, MENO SPENDE

Tra un post e l’altro (in molti ormai lo saprete) svolgo la professione di avvocato, in particolare nella materia civile.
Specializzarsi è un lusso che difficilmente ci si può permettere ma nella maggior parte dei casi, mi occupo di responsabilità medica e quindi risarcimento dei danni causati da errori od omissioni dei sanitari.

Tra i primi casi che mi capitarono, ricordo una donna che si sottopose ad un’addominoplastica correttiva per migliorare la situazione estetica dell’addome, adiposo e rovinato dalle smagliature. Per risparmiare appena duemila euro anziché andare da un noto chirurgo plastico, preferí rivolgersi ad un chirurgo senza alcuna specializzazione in chirurgia estetica. Il risultato? Si ritrovò una pancia cadente (si afflosciava su se stessa, per intenderci) e non aveva più l’ombelico.

Duemila euro non sono pochi, certo, e immagino che qualcuno abbia storto il naso leggendo la parola “appena” ma dovete considerare che gli interventi di chirurgia estetica hanno dei costi che variano, in media, dai cinque ai dieci mila euro. Se spendere duemila euro in più significa rivolgersi ad un chirurgo plastico di rinomata fama anziché ad un chirurgo senza alcuna specializzazione, beh, probabilmente ne vale la pena.

Chi più spende meno spende, diceva mia nonna. Mai proverbio fu più azzeccato per questo caso. La poverina, infatti, fu costretta a sottoporsi ad un nuovo intervento, questa volta dal chirurgo che inizialmente aveva scartato perché troppo caro. Per fortuna i danni fatti dal primo non erano irreversibili ma quanto le è costato in termini di dolore, tempo, stress – senza contare che alla fine ha pagato ben due interventi! –

Fortunatamente, nonostante il grande ostruzionismo posto in essere dal medico e dalla struttura sanitaria (che si difesero con le unghie e con i denti nonostante il palese esito disastroso del primo intervento), la signora ottenne il risarcimento dei danni.

La morale sta in quel proverbio sopra citato: chi più spende, meno spende.

E’ vero che ci sono molti approfittatori in giro ma mai, come nel caso della chirurgia estetica, bisogna affidarsi a chi promette ottimi risultati a prezzi stracciati.
Informatevi, soprattutto da persone che hanno avuto esperienze dirette, chiedete ogni cosa, fate più di una visita anche solo per sentire più pareri.

I macellai non sono tanti ma ci sono e a farne le spese sarete voi.

CARO GRUPPO WHATSAPP TI ODIO

Tutti affermano di odiare i gruppi Whatsapp eppure tutti ne fanno un gran uso ma, soprattutto, abuso.
Dato che raramente qualcuno si ribella, mi faccio avanti io a costo di inimicarmi amici e parenti fino all’ottavo grado. Mi immolo per voi, che potrete condividere questo post sulle vostre bacheche commentando con un innocuo “ahahah”, sperando che chi ha orecchie per intendere intenda.
Davvero non se ne può più ed è ora che ci diamo qualche regola per rendere questa croce sulle spalle meno gravosa.
Punto primo: se qualcuno fa una domanda NON E’ OBBLIGATORIO rispondere in quindici. Capite anche voi che se uno chiede “A che ora ci si vede?” ricevere decine di notifiche e leggere “Alle 20” “Alle 20” “Alle 20” “Alle 20” e così all’infinito trasforma anche il più mite di noi in Jack Torrance. Vale lo stesso per “ok”, “ahahahah” e i pollicioni all’insù.
Punto secondo: non c’è un modo gentile per dirlo. Tutti i video e le immagini con orsacchiotti, rose, caffè, cappuccini, gattini, pulcini fanno inesorabilmente schifo. Lo so che potrei dire che sono démodé e naif ma vorrei che si capisse chiaramente il concetto perché fanno proprio schifo. I gattini glitterati sarebbero piaciuti a mia nonna, nata nel 1913 e cresciuta con le cartoline, il televisore in bianco e nero e le bomboniere di ceramica.
Punto terzo: whatsapp non è un social. Se volete condividere video e barzellette fatelo su Facebook magari scoprendo, finalmente, che quei video e quelle barzellette ritenute “divertenti” girano sul web già da una decina di anni e fanno ridere quanto l’uomo che entra in un caffè facendo splash. Tra l’altro, ogni volta che inviate video e immagini costringete i nostri telefoni a scaricare dati e a consumare batteria del cellulare, come se avessimo ancora i Nokia 3310.

Punto quarto: le catene di S. Antonio. SIAMO NEL 2018 PER LA MISERIA!
Punto quinto: le spunte blu. Non riguardano propriamente i gruppi ma ce l’ho qua sul gargarozzo e devo dirlo. Il fatto che viviamo in simbiosi con il nostro cellulare non significa che possiamo rispondere nel momento esatto in cui visualizziamo un messaggio. Magari stiamo entrando in doccia oppure stiamo per metterci alla guida. Che la spunta blu sia un timer, attivato il quale abbiamo dai tre ai cinque secondi per rispondere è una pretesa assurda e immotivata che genera solo una cosa: ANSIA. Mollateci.
Punto sei: le bufale. SIAMO NEL 2018 PER LA MISERIA!

Prima di rispondere “Allora perché non abbandoni i gruppi? Nessuno ti obbliga” pensate al perché non lo fate voi. Scommetto che le ragioni sono le stesse.
Ci sono i gruppi del lavoro o della scuola dei figli che tra la foto di un cappuccino e un gattino danzante servono (o meglio, dovrebbero servire) per comunicazioni importanti.
E poi, diciamolo, siamo ormai scafati e consci della grande ipocrisia che c’è dietro la frase “Sei libero di fare ciò che vuoi”. Certo che siamo liberi di fare ciò che vogliamo, peccato che quando lo facciamo inizia il trituramento di maroni, fatto di messaggi privati in cui vogliono farti sapere che quel “Federica ha abbandonato il gruppo” ha creato più incidenti diplomatici delle battute del Principe Filippo. E, in certi casi, è molto meglio ricevere dieci foto di cappuccini cuorati, che un messaggio in cui zio Carmelo mi dice di quanto se l’è presa la cugina Fernanda.

Come sempre, il problema non è il mezzo ma chi lo utilizza. Eppure basterebbe poco. Basterebbe affidarsi al caro, vecchio buon senso.
Vi piace condividere Santa Rita che vi augura il buon giorno? Benissimo. Fatelo privatamente con chi ha i vostri stessi gusti.
Vi piace scrivere ininterrottamente ok, hihihi o inviare sette emoticon per esprimere lo stesso concetto? Benissimo, ma ricordate che ogni vostro invio è un trillo sul display che ci distrae, infastidisce, interrompe da altre attività perciò chiedetevi: è veramente necessario?

E se la risposta è sì, è quella sbagliata.

ITALIANI, POPOLO DI IMPICCIONI

Una suocera lo faceva per vedere se la nuora era ordinata, una conoscente per sapere se l’amica aveva creme e profumi costosi, un vicino per scoprire se in quella casa si usavano psicofarmaci.

Pare che l’abitudine di frugare tra le cose altrui, soprattutto quando ci si chiude nel bagno, sia tutt’altro che rara.

Ho fatto un sondaggio su Twitter ed il 25% (dei 3.699 votanti) ha ammesso di curiosare tra i cassetti e le ante dei mobili del bagno, quando è a casa di altri.

Lo trovate inquietante?

Sappiate che quella percentuale è ben più alta e molti di quelli che hanno risposto no, mentono. Come lo so? Esperienza diretta e indiretta. Negli anni mi è capitato spesso di sentire storie a riguardo e vi garantisco che la maggior parte dei curiosoni è insospettabile. Come lo “stimato” chirurgo che, se trova delle creme cosmetiche di buona qualità, non si fa alcun problema ad utilizzarle o l’amico con il  vizietto nascosto di rubare la biancheria intima femminile dal cesto dei panni sporchi.

Italiani popolo di impiccioni? Direi di sì.

Mi chiedo a che pro. Insomma scoprire che l’amica usa la crema per le emorroidi o si beve qualche goccia di Xanax non credo possa risolvere le giornate di questi soggetti a cui noi, ignari, apriamo la porta delle nostre case. E’ semplice curiosità? La moglie del nostro collega ha la pelle così liscia, magari è merito di qualche crema miracolosa di cui noi ignoriamo l’esistenza. O è banale competizione? I suoi cassetti sono più ordinati? I suoi prodotti più costosi?

Qualunque sia la motivazione, sappiate che d’ora in avanti, prima di avere ospiti, vi conviene ripulire ogni cassetto e antina del bagno e lasciarlo vuoto come quelli in esposizione negli show-room.

In alternativa, una tagliola nascosta nel cassetto sarà un ottimo deterrente.

 

 

SIAMO TORNATI!

Dopo una lunga pausa  siamo tornati.

Sì, io e il nostro gigante, il Signor Nettuno.

Una coincidenza? Non credo.

Vorrei dire che anche io, come lui, sono stata via per motivi di restauro ma mentirei.

Lui è decisamente più in forma – confesso che anche a me servirebbero cinquecento giorni di vacanza, quanto mi farebbero bene! – ma io ho fatto e ho visto più cose e ve le racconterò.

 

 

LA COSA PIU’ DIFFICILE? LASCIARLI ANDARE

Riccardo ha da poco compiuto dieci anni e, da qualche tempo, soprattutto da quando è in vacanza, sto iniziando a scorgere i primi, embrionali, timidi accenni di quella voglia di indipendenza che, prima di quanto io immagini, arriverà a travolgermi come uno tsunami.
Al suo desiderio di libertà, ho reagito provando disagio e un pizzico di paura.
Allora ho capito. Ho capito che tra le prove più difficili a cui ogni genitore è chiamato nel corso della vita, quella che prevede che tu li lasci andare sia la più difficile.
Li cresciamo proteggendoli da qualsiasi cosa. Dal cibo che ingeriscono, dalle macchine in strada, dal sole, dal freddo, dalle onde del mare. Viviamo tutte le paure possibili ma crediamo (magari fosse così!) di avere ogni cosa sotto controllo ed in fondo è una sensazione naturale dato che stanno costantemente sotto la nostra ala.
Ma che succede quando vorranno uscire di casa? Mille raccomandazioni, certo, ma non mi basterà. “Non bere / non correre in macchina / non prendere droghe / non fidarti di chi non conosci” saranno frasi che dirò allo sfinimento mentre i miei figli infileranno le chiavi in tasca e mi saluteranno con un veloce cenno della mano, alzando gli occhi al cielo.
E poi?
E poi niente. Come tutti i genitori che ci sono passati prima di me, anche io non dormirò finché non sentirò la chiave che gira nella serratura o finché non arriverà il messaggio “Tutto ok” (ho due maschi non posso aspettarmi testi più lunghi di due parole).
E’ questo il mio destino: vivere in un costante stato di preoccupazione, perché non importa se saranno alti un metro e ottatantacinque, avranno il vocione, la barba e la carta di credito.
Io li guarderò e li vedrò correre verso di me, con le gambette secche, le ginocchia sbucciate, i capelli scarmigliati e la bocca sdentata.
Per i genitori restiamo sempre bambini.
E forse è proprio il bello di questo straordinario, complicatissimo mestiere.

LA DIGNITA’ DEL BOTOX

Premessa: non sono contraria a filler e botox (purché usati con intelligenza). Anzi, dopo i 30 anni li dovrebbe passare la mutua e se entro in politica vi prometto che mi batterò per questo.

Ciò detto, trovo parecchio ridicole quelle che ne fanno palesemente uso e poi pubblicano selfie con didascalie tipo: “Ventenni sucate / Non ho niente da invidiare a una ventenne” e altre minchiate.

BELLA MIA se hai la faccia liscia non è merito tuo ma del dottore che ti ha fatto le punturine.
Se hai la pelle liscia non è perché sei stata miracolata da madre natura o fai tanto sport e mangi sano.

La forza di gravità è democratica e arriva per tutte.

Le ventenni, quindi, si preoccupano dei tuoi suca tanto quanto Melania Trump si preoccupa dei senzatetto. Le ventenni, cara mia, se ne sbattono dei tuoi suca perché hanno la pelle liscia senza spendere quattrini, senza sottoporsi a sedute ogni 4, 6 mesi ma soprattutto perché SONO ventenni mentre tu sei una donna matura che dovrebbe solo preoccuparsi di invecchiare dignitosamente.

Perché a questo servono i filler e il botox: semplicemente ad invecchiare dignitosamente.

QUANDO MI DISSERO: VOLA BASSO

Parlo raramente del mio lavoro anche perché il diritto civile non offre storie degne di nota soprattutto quando ci si occupa di recupero crediti o contratti. Diverso è il caso della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, un campo che ho sempre seguito con maggiore attenzione e passione.

Si tratta di una buona fetta del diritto civile che va dalla tutela del consumatore (una vacanza rovinata, l’acquisto di un veicolo usato, problemi con la telefonia), alla responsabilità professionale medica (un intervento chirurgico mal eseguito), alla richiesta di risarcimento dei danni subiti a causa di un allagamento provocato dal vicino del piano di sopra.

Oggi vi voglio raccontare di un mio piccolo, grande successo al quale credevo solo io. Oddio, in realtà ci credeva anche il cliente ma la maggior parte dei clienti crede di aver ragione anche quando è nel torto, quindi fa più scena se vi dico che ci credevo solo io.

La storia è molto semplice. La cliente ha un’agenzia di viaggi. Un giorno decide di passare ad altro operatore telefonico perché più conveniente ma qualcosa non va e le cinque linee telefoniche non funzionano. In pratica solo una linea è funzionante e quando quella è occupata (praticamente sempre), l’agenzia risulta irreperibile. Tutti i reclami al servizio clienti finiscono nel nulla. Passano le settimane, la titolare è disperata, i clienti le scrivono email inviperite in cui le danno della poco seria, della buffona e dichiarano di rivolgersi ad altra agenzia. Insomma un disastro.

La titolare viene quindi da me. Promuovo immediatamente un ricorso d’urgenza per chiedere la disattivazione delle linee. Passano un paio di mesi (il termine “urgenza” è relativo soprattutto in tribunale), otteniamo la disattivazione e la cliente può finalmente rivolgersi ad un altro gestore telefonico. Intanto però è rimasta sei mesi senza telefono e i danni sia economici che all’immagine professionale sono evidenti.

La cliente è disponibile ad accettare una somma “simbolica” di poche migliaia di euro pur di chiudere la vicenda ma la compagnia telefonica rifiuta categoricamente (pure in maniera sgarbata e arrogante). La causa civile è, a quel punto, inevitabile.

Passa qualche anno – le cause in tribunale durano in media dai tre a cinque anni -. Come spesso accade, col tempo la rabbia del cliente si trasforma in frustrazione ed iniziano le consuete domande: “Ma quanto ci vuole? / Forse dovevo chiedere meno / E se perdiamo?”. A questo si aggiunga che la cliente nel frattempo si fidanza con un collega, il quale (poco correttamente) manifesta grosse perplessità sulla causa e sulle mie richieste mettendomi, inevitabilmente, in cattiva luce. Insomma il messaggio che passa è che sì, abbiamo ragione, ma cosa ci aspettiamo? Anni di causa e se ci riconoscono quattro, cinquemila euro ci dobbiamo baciare i gomiti. Vale la pena investire tempo e denaro per una somma del genere?

Io rispondo: sì.

Arriva la sentenza. La compagnia telefonica è responsabile e deve risarcire il danno. Il danno da risarcire ammonta a 100.000,00 euro oltre spese legali.

Sì avete letto bene: centomila euro.

Io ho dovuto leggere quella cifra parecchie volte, ve lo confesso. Con tutti quegli zero e le mani che tremavano non è stato facile.

E’ stata la prima volta che anziché chiamare il cliente al telefono, ci sono andata di persona, sventolando la sentenza come si fa con le bandiere.
Poco professionale, lo so, ma in fondo la professionalità l’avevo già dimostrata sul campo.